L’uso dell’immaginazione attiva nella seduta analitica: alcuni aspetti terapeutici
Studi Junghiani, vol. 10, n. 2, 2004
Annemarie Kroke
Nel corso degli anni l’immaginazione attiva ha acquisito uno spazio crescente nei processi analitici che seguo. Sebbene Jung abbia attribuito un ruolo terapeutico peculiare all’immaginazione attiva, per quanto ne so, questo metodo terapeutico è oggi poco utilizzato in ambito junghiano. Ciò potrebbe forse derivare dal fatto che Jung ha sperimentato per la prima volta su di sé questa metodica in un momento di difficile transizione esistenziale e teorica, legato al suo distacco da Freud, come racconta egli stesso nella sua autobiografia.
La tecnica dell’immaginazione attiva da me adottata, che si discosta in parte dal metodo storicamente proposto da Jung, è frutto di una personale elaborazione che si è andata definendo nel corso del mio lavoro clinico.
L’analizzando fa esperienza dell’immaginazione attiva all’interno della seduta. Ritengo, infatti, che l’immaginazione attiva nelle sedute in presenza dell’analista dia la possibilità al paziente di entrare in una particolare vicinanza con la propria dimensione interna. Questo strumento fornisce all’inconscio personale e a quello collettivo uno spazio in cui il processo della loro integrazione con l’Io prende una forma percepibile, internamente sensibile, nelle immagini. L’immaginazione attiva nelle sedute promuove dunque, a mio avviso, e intensifica, il processo terapeutico. L’immaginante scopre la possibilità di compiere passi trasformativi e può nascere così la fiducia nella “guida” interna dell’inconscio. Tutto questo rende poi accessibile la continuazione dell’immaginazione attiva senza l’accompagnamento dell’analista a conclusione dell’analisi. Uno dei criteri, infatti, che indica il termine del percorso analitico, per me, sta nella capacità di svolgere l’immaginazione attiva in maniera relativamente autonoma, senza cadere nella ripetizione delle proprie inibizioni complessuali.
La mia modalità di condurre l’immaginazione attiva si struttura come un
processo esperienziale in cui immaginante e analista procedono da un Non-Sapere a un qualche Sapere.
Il modo in cui si svolge la dinamica interattiva del processo dà all’analista che l’accompagna la possibilità di comprendere la situazione psichica attuale dell’immaginante. È una comprensione analitica che segue il processo che si sviluppa e non pretende quindi una validità assoluta.
Nell’immaginazione attiva il dialogo con l’inconscio è un dialogo con se stesso nel proprio mondo esperienziale, un autentico relazionarsi a vicenda di tutte le componenti della psiche. Proprio questo esprime, credo, la caratteristica qualificante dell’immaginazione attiva: il dialogo della coscienza con le proprie immagini inconsce si costituisce come un processo relazionale. Nei momenti in cui la capacità dell’immaginante di condurre questo dialogo diminuisce, l’analista ha la possibilità, con opportuni interventi, di sollecitarlo e guidarlo, di evocare la funzione integrativa di Eros. In questo modo l’immaginante fa l’esperienza di poter modificare un’attitudine relazionale interna, che ristrutturerà positivamente anche i suoi rapporti esterni, favorendo circolarmente la fiducia e la disponibilità a mantenere il dialogo con le proprie parti psichiche.
Questa fiducia è incrinata in persone che hanno avuto disturbi dei rapporti interpersonali di base. Esse tendono a usare l’immaginazione come una specie di “nascondiglio” di fronte al mondo esterno. La fantasia può fungere così da soddisfazione dei desideri in un mondo illusorio, in quanto l’immaginante non ha sufficiente fiducia di poter cambiare qualcosa attraverso il dialogo con l’altro. È proprio dell’immaginazione attiva il poter incentivare un’esperienza relazionale sia dinamico-regolativa che favorente lo sviluppo, un’esperienza in cui nasce qualcosa di nuovo.
Qui di seguito vorrei descrivere come prende forma l’immaginazione attiva nelle sedute che conduco. Tenterò di procedere gradualmente, proprio come accade nell’attivazione della tensione immaginale nella terapia. Più avanti approfondirò alcuni criteri dell’accompagnamento terapeutico che mi sembrano specifici di questa metodica.
La mia esperienza pratica
Sono diverse le situazioni in cui ritengo opportuno invitare il paziente a svolgere un’immaginazione attiva. Spesso propongo l’immaginazione attiva per il proseguimento di un sogno. Oppure riprendo un’espressione metaforica. Anche eventuali sintomi fisici che s’impongono all’attenzione della coppia analitica vengono considerati una possibile via di accesso al percorso
immaginativo, come lo è anche il gesto motorio del paziente che contraddice una simultanea espressione verbale. Sono situazioni in cui avverto e raccolgo la spinta manifestativa dell’inconscio.
Non è il terapeuta, dunque, che fornisce l’immagine iniziale poiché, ponendosi in ascolto, l’immagine può, al momento opportuno, emergere da sola in una figurazione simbolica adeguata. Ritengo che l’inconscio del paziente sappia quale passo trasformativo è momentaneamente fattibile e come raggiungerlo.
Secondo la mia esperienza, se la coscienza si dispone spontaneamente a un’immaginazione attiva, le sue forze non vengono sopraffatte. D’altra parte in uno stato psichico molto labile, l’immaginazione attiva non è consigliabile, perché il confronto con le immagini interne non può essere sostenuto senza il rischio di un’inflazione da parte di contenuti inconsci.
Per introdurre un’immaginazione attiva per la prima volta nella seduta, chiedo all’immaginante di trovare lui stesso una posizione corporea adatta.
Prenderà la posizione che gli corrisponde al momento, coricato o seduto, con gli occhi chiusi o aperti. Poi chiedo all’immaginante di far sfocare gli stimoli esterni il più possibile e di lasciar sviluppare un’immagine davanti ai suoi “occhi interni”. Intenzionalmente non do nessuna introduzione al rilassamento, o a stati di trance ipnoide, in quanto non posso sapere se l’immaginante non debba al contrario essere, a seconda dei contenuti che costellerà, particolarmente attento e all’erta. Domando all’immaginante di non valutare criticamente niente di ciò che emerge, o di volerlo correggere, ma di dedicare la sua attenzione a qualunque immagine gli si prospetti. Che possa dunque disporsi all’apertura dell’ “essere in anima”, per attribuire realtà effettiva ai propri aspetti inconsci, potergli dare un senso. Dopo una fase di silenzio, chiedo all’immaginante di descrivermi l’immagine che va prendendo corpo. La codificazione verbale favorisce la formazione della immagine, in quanto accentua la capacità di portare il diffuso verso una configurazione ben delimitata. L’immagine che si sviluppa progressivamente guadagna di concretezza e percettibilità. Comincia a strutturarsi in uno spazio tridimensionale. Attraverso la colorazione, l’immagine acquista un’espressione emozionale differenziata. La qualità spaziale dell’immagine crea uno “spazio dell’anima” in cui il movimento è reso possibile. In questo modo l’immagine posta davanti agli “occhi interni” acquista le stesse caratteristiche e risponde agli stessi criteri che ci fanno assumere per veritiera la realtà esterna.
Il passo successivo richiede che l’immaginante entri con il proprio corpo nella propria realtà interna, che entri nello spazio immaginale, per percepirvi se stesso come sua parte. Nella prima sessione di immaginazione ciò
può essere facilitato attraverso appositi quesiti dell’analista, quesiti che riguardano la percezione cinestetica (posizione, motricità) e la percezione di sé nello spazio.
Grazie al fatto che l’immaginante è consapevole della propria presenza corporea nella realtà interna, si comporterà in essa come fa abitualmente nella realtà esterna. Si forma così la base per un autentico processo esperienziale. La progressiva integrazione di Geist-Seele-Körper (Spirito-Anima-Corpo) è la premessa per la presa di coscienza di nuove sintesi. Non a caso lo stesso Jung non si stancava di ripetere come la semplice comprensione intellettuale non possa in alcun modo sostituirsi a un’esperienza che contempli anche il livello emotivo e percettivo di integrazione. Nello spazio immaginativo si polarizzano la coscienza dell’immaginante con la percezione del sé corporeo, le sue emozioni e i contenuti della realtà interna inconscia. In altre parole, la sua situazione psichica totale.
Con questa polarizzazione nello spazio immaginale si è resa possibile una distanza di riflessione ed è quindi data la condizione preliminare per un confronto tra le proprie parti psichiche conflittuali. Ora, progressivamente, si può sviluppare una relazione dialogica che attraverso l’avvicinamento degli aspetti inconsci permette una trasformazione. Nell’immaginazione attiva questi aspetti sono spesso rappresentati in maniera personificata e fortemente caratterizzati dal contesto. Attraverso la loro pluralità e la relazione che intrattengono con la coscienza, questi complessi personificati esprimono una propria prospettiva sulle cose. Questa moltitudine di “occhi”, questi modi diversi di relazionarsi con la realtà, propongono all’Io una dislocante varietà di approcci interpretativi. Essi sono strumenti di aiuto per una conoscenza che progressivamente si completa.
Grazie al fatto che nell’immagine l’attuale situazione psichica viene rappresentata come relazione dinamica tra le sue parti, si struttura una tensione simbolica in una specie di “spazio libero e protetto”. L’immaginante sopporta così di stare in contraddizione con se stesso. D’altra parte, l’immaginante si sente stimolato, proprio dalla tensionalità dell’immagine, a guidare la contraddizione in una nuova unificazione integrante. L’immaginante entra nello spazio immaginale interno e descrive ciò che lo circonda: l’atmosfera della scena, le caratteristiche dello spazio, il paesaggio ecc. Riferisce come vive l’altro che ha di fronte e ciò che ascolta, ciò che annusa, come agisce lui stesso. Solo a queste condizioni l’immaginante comincia un confronto produttivo, tenta di superare le tensioni e i conflitti e di avvicinare ciò che sembra inconciliabile o distante, o ciò che si è reso estraniato.
Fornirò un esempio di come opera la spinta integrativa della tensione immaginale, descrivendo una singola sessione immaginativa di una studentessa.
Questa giovane donna si muove nel mondo senza legami affidabili, senza ancoraggi profondi per non rivivere esperienze di abbandono precoci.
La sessione di cui parlo appartiene a una serie di immaginazioni nelle quali la paziente ha percorso regressivamente la propria infanzia per poterla progressivamente rielaborare.
Nello scenario immaginativo, l’immaginante ha sette anni e si trova nel soggiorno della casa d’infanzia. Nota che nella stanza vi è un’oscurità strana. Nota il silenzio nonostante tutti i membri della sua famiglia siano presenti. Si adopera per tentare di entrare in contatto con loro, ma nessuno si accorge di lei, nonostante i suoi sforzi. Ciò la getta nella disperazione. Alla fine prende coraggio e va dalla madre che sembra immobile. S’inginocchia davanti a lei e la guarda. Vede una maschera di dolore priva di aperture per gli occhi. Dopo un po’, con cautela, la tira giù e per la prima volta nella sua vita percepisce gli occhi belli e profondi di sua madre. Per la prima volta si sente vista da questi occhi. Ne è profondamente commossa. Poi si rilassa.
Nel sogno, spesso, questa possibilità trasformativa non è data. Sogni la cui tensionalità dinamica risulta irrisolta possono essere “continuati” con l’immaginazione attiva. A volte sono gli incubi che vengono interrotti prima del termine. È possibile tentare di sollevare un paziente da una tensione ansiosa così forte? In stati d’angoscia troppo intensi potrebbe essere difficile, se non talora sconsigliabile, portare l’immagine scenica a un cambiamento processuale. So per esperienza che in questi casi l’angoscia svolge una sua funzione di protezione attraverso la fissazione e il controllo dell’Io. Lo sguardo è rivolto all’esterno, fissato sull’altro di fronte, cosicché la percezione del proprio esserci viene trascurata. Nel corso dell’immaginazione la coscienza corporea propriocettiva diminuisce e l’immagine s’irrigidisce nella minaccia. Se l’angoscia è troppo grande un dialogo, un confronto interattivo, è difficilmente raggiungibile.
Il “compito” integrativo può prendere solo forme individuali. L’immaginante incontrerà parti interne che possono sembrare diverse o addirittura estranee e la diversità rinforzerà difensivamente l’opposizione. I tempi e le eventuali modalità per il superamento di queste inibizioni relazionali sono scanditi dalla situazione e dalla storia di ogni singolo paziente. La qualità e la misura dello specifico passo trasformativo variano a seconda delle attuali capacità della coscienza che nel corso dell’immaginazione attiva sono riconoscibili soprattutto dal grado in cui è mantenuta la presenza di una consapevolezza corporea. È importante che durante il processo le capacità della coscienza permangano in equilibrio dinamico con l’inconscio. Se l’inconscio tende all’inflazione, quest’equilibrio è messo a rischio. Nell’immaginazione attiva risulta allora affievolita la percezione del proprio corpo.
L’analista tenderà a sondare la situazione con opportuni interventi. In una paziente, la minaccia d’inflazione si manifestò, per esempio, sotto forma di un’onda marina sproporzionatamente alta che si avvicinava all’immaginante la quale, però, non reagiva. Sollecitata da alcune domande relative alla sua posizione corporea, l’immaginante riusciva ad avere una maggiore coscienza del proprio corpo e sciogliere così, lentamente, il fascino esercitato dall’onda che le muoveva contro. Assumeva allora una posizione più sicura e riusciva ad aggrapparsi a una rete, che aveva, parallelamente alla spiaggia, la funzione di rompere le onde, cosa di cui la paziente non si era prima resa conto. Attraverso quest’immaginazione attiva la minaccia acuta di essere inondata dall’inconscio venne arginata.
Quando entrano nel campo immaginale difese di una coscienza egoica irrigidita nei propri presupposti, il processo trasformativo viene invece inibito attraverso la figurazione di un allontanamento dall’azione. Ci si osserva da una prospettiva esterna, i movimenti possono essere inadeguatamente temerari o sbrigativi, l’Io sembra catturato dal suo soggettivismo, come se fosse incapace di mettersi in relazione con la propria immagine, la coscienza cerca di tenere il proprio inconscio a distanza. In questi casi è utile che l’analista stimoli la relazionalità, dirigendo la percezione sensoriale in piccoli, a volte minimi passi, su ogni singolo dettaglio dell’altro. In questo modo, non senza fatica, dai dettagli che fungono da singoli elementi costruttivi scaturisce un’immagine dinamica, una nuova sintesi. A volte viene compiuto solo un piccolo passo trasformativo. Nei processi immaginativi profondi, il cambiamento può rappresentarsi addirittura simbolicamente nel corpo. Nell’immagine, il dissolvimento del corpo organico può procedere fino al permanere di un unico piccolo centro. Questo centro conserva la capacità di rimanere sensorialmente attento e cosciente, capace di sperimentare il succedersi degli accadimenti, fino a quando non viene a formarsi un “corpo nuovo”. Il passaggio trasformativo è compiuto e l’immaginazione attiva si è arrotondata in una “Gestalt”.
Quando la dinamica figurativa ha raggiunto una forma completa, una “Gestalt’, è il segnale che il “compito” dell’immaginazione attiva è temporaneamente risolto. Spesso è l’immaginante stesso che sviluppa una percezione interna per la diminuzione della tensione al confronto. Anche nella scena immaginata si annuncia che qualcosa sta terminando. Per una paziente, per esempio, dall’immagine scaturiva la visione di una pianura ampia e profonda che si stendeva davanti ai suoi occhi. Per un paziente che più volte si era ritrovato su un palcoscenico, cadeva un sipario.
Ci sono situazioni in cui tali cambiamenti o forme “gestaltiche” non sono tuttavia riconoscibili. Probabilmente si sono ridestati e sono operanti
blocchi conflittuali. Sappiamo che una Gestalt non completata ha la tendenza a imporsi all’attenzione cosciente. Essa richiederà una riattivazione della tensionalità immaginativa fino al compimento di una nuova sintesi integrativa.
Una volta terminata l’immaginazione attiva, chiedo all’immaginante di trascriverla il più dettagliatamente possibile e di portarmi una copia di quanto ha scritto. In questo modo il percorso della successione immaginativa viene rievocato un’altra volta nella coscienza. Alcuni continuano così a sviluppare autonomamente l’immaginazione. Altri la disegnano attraverso immagini simboliche. Da questi resoconti mi è possibile sapere quali passaggi sono stati definitivamente assimilati nella coscienza e quali movimenti, invece, sono stati lasciati cadere. Per esperienza so che questi ultimi si ripresenteranno in forma diversa nelle successive sessioni di immaginazione attiva. Il percorso interno continuerà e si evidenzieranno delle sensibili variazioni, ma il succedersi immaginale si svolgerà in una logica stringente, rintracciabile sia in un’immaginazione singola sia in un suo svolgimento seriale.
In questo contesto mi sembra che l’acquisizione più significativa dell’immaginante sia quella di vivere internamente la spinta formativa alla propria personalità, alla strutturazione del proprio Sé. Se l’immaginante accoglie le immagini a valenza simbolica emergenti dall’inconscio col tempo fa l’esperienza di qualcosa di profondo: può avere fiducia in una guida interiore che orienta il suo processo di individuazione.
Aspetti dell’accompagnamento terapeutico dell’immaginazione attiva
Quando accompagno un’immaginazione attiva, mi sforzo di fungere sia da containment che da container per il paziente. Durante il processo d’immaginazione, mi dispongo a un'”attitudine simbolica”, cosi come viene definita da Jung, per il confronto con l’inconscio.
Nel containment, lo spazio psichico che l’analista offre, permette all’immaginante di sentirsi sostenuto e fiducioso e gli consente di aprire uno spazio interno dove sviluppare l’immagine. Come container, l’analista offre uno spazio in cui è contenuta la tensione tra gli opposti, tra l’inconscio e la coscienza. È importante che questa disposizione terapeutica comprenda lo spazio intersoggettivo in cui si trovano l’immaginante, con la sua immaginazione attiva e l’analista.
L’analista, come una madre, offre un posto nella propria psiche alla relazione diadica intersoggettiva e intrasoggettiva del paziente e mentre questi “gioca” con le sue immagini, assume una presenza attenta e discreta. Si crea così uno spazio che può essere sentito come reale e al tempo stesso illusorio, ovvero uno spazio potenziale in cui è data la possibilità di un intenso vissuto trasformativo. È fondamentale, come ho già detto, che l’immaginante possa espandersi in questo spazio corporeamente, cioè fisicamente, materialmente. La vitalità percettivamente recepita della sua esperienza trova così corrispondenza nella vitalità delle tensioni simboliche in atto. Da analista, cerco di aprirmi all’ignoto dell’immaginante con un’attenzione assorbente e una partecipazione emozionale. Tento di rivolgermi a lui senza preclusioni, in uno stato di “Non-Sapere”. In questo modo viviamo entrambi la tensione creativa dello scoprire insieme una nuova realizzazione psichica. Immaginante e analista vivono il succedersi immaginale come realtà, su un piano di evidenza fenomenologica. Passo dopo passo il processo diventa quindi esperibile senza che le rappresentazioni dell’inconscio vengano preliminarmente interpretate come proiezioni del mondo interno del paziente.
L’attitudine simbolica assunta dall’analista nel corso dell’accompagnamento consente di effettuare una sorta di triangolazione del processo diadico tra l’Io del paziente e il suo piano fenomenologico. Il succedersi immaginale acquista così un valore particolare che consentirà al termine dell’immaginazione attiva di “nominare” il simbolo in quanto senso. Jung parla della funzione trascendente come di un processo naturale che si sviluppa dalla tensione degli opposti tra coscienza e inconscio. Nel processo immaginativo il mio compito è teso proprio a favorire la capacità di simbolizzare che struttura la funzione trascendente.
Durante la fase preimmaginativa, ovvero nel momento in cui l’immaginante si dedica alla percezione dell’immagine che prende forma davanti ai suoi “occhi interni”, cerco di entrare in contatto con la situazione del paziente attraverso la comunicazione inconscia. In questa fase mi capita spesso di sentire fisicamente dei cambiamenti corporei, di sentirmi toccata emozionalmente senza per il momento saper collocare tale sensazione. Nella fase preimmaginativa cerco di farmi venire un’immagine. È la mia immagine, nella quale, in seguito, riconosco un’espressione di ciò che sono stata capace di accogliere dell’inconscio dell’immaginante. Generalmente emerge in me un’immagine in bianco e nero, che sembra cristallizzare sinteticamente il processo che seguirà. Far emergere la mia immagine mi aiuta ad aprire lo spazio interno e ad esaminare a posteriori quanto mi è stato possibile accogliere della comunicazione inconscia, o anche quanto la mia immagine sia stata costituita da aspetti controtrasferali o da contenuti puramente personali.
Può succedere, a volte, che l’immaginante non mi conceda lo spazio per sviluppare una mia immagine perché salta del tutto la sua fase preimmaginativa. Questo suo atteggiamento relazionale pressante si evidenzia spesso anche nel corso della immaginazione successiva. L’immaginante si comporta in maniera simile anche nei rapporti intrapersonali. Per me si tratta di un’indicazione diagnostica preziosa, che orienta la mia attenzione nella funzione di accompagnamento immaginativo. Un esempio potrà chiarire meglio quanto appena detto.
Entrando nello studio, una paziente mi saluta con un fugace sorriso luminoso, pronuncia poche frasi e si stende di slancio sul lettino. La paziente ha vissuto negli ultimi anni perdite inaspettate e profonde di persone a lei molto care. Inizia subito a descrivere la propria immagine, come se dovesse fermare il flusso delle emozioni con il flusso delle parole. La pressione è tale da non lasciare a me né spazio né tempo per entrare in contatto con la mia immagine. La pressione che percepisco sembra dettata dal desiderio della paziente di essere vista, da una sorta di timore non essere ascoltata, di non potersi fidare dello spazio offerto, della paura di essere nuovamente esposta al vuoto lasciato dalla morte di una persona cara. Nell’immagine iniziale della sua prima sessione immaginativa, la paziente si sente dapprima persa nell’infinitità di un deserto poi, nelle immaginazioni che seguono, si ritrova intenta a cercare affannosamente una casa adatta per lei. Esprime così il proprio bisogno di mura che la contengano, mura all’interno delle quali trovare la calma e potersi abbandonare fiduciosamente. Ma la paura di sentirsi di nuovo dimenticata e abbandonata in questa casa protettiva sembra avere il sopravvento. Questo timore la spinge ad andare oltre. Incontra cose, persone, ma i contatti rimangono brevi e fugaci. Questo atteggiamento relazionale intrapsichico si evidenzia anche nel modo in cui si dedica all’immaginale: coglie sensorialmente di sfuggita ciò che incontra e non si concede la ricchezza di un proprio spazio immaginativo. Più che vivere ciò che accade sembra spinta a comprenderlo intellettualmente.
Nell’immagine della casa che la circonda protettivamente avverto l’espressione di un suo bisogno di contenimento. Solo col tempo, l’approfondimento e la crescente fiducia nell’esperienza relazionale sia all’interno dell’immaginazione attiva che nello spazio relazionale analitico faranno diminuire questa sua compulsione a dover preventivamente riempire, nei nostri incontri, ogni possibile vuoto di perdita.
Diversamente da quanto accaduto nell’esempio sopra riportato, l’evolversi dell’immagine iniziale generalmente procede più lentamente. Ciò mi dà l’opportunità di far riemergere la mia immagine. Con il passare del tempo e il continuo esercizio, la mia capacità di leggere eventuali aspetti controtransferali
della mia immagine si va affinando. Con pazienti che tendono a scindere gli affetti, ad esempio, la mia immaginazione assume, non a caso, colorazione e processualità. Di solito cerco di memorizzare la mia immagine per poterla mettere, per così dire, da parte. Ritengo importante, infatti, non influire sul processo di sviluppo dell’immagine dell’immaginante e non condizionarlo. Quindi tento, attraverso la descrizione verbale del paziente, di vedere davanti ai miei “occhi interni” la sua immagine. Nel caso in cui l’immagine non corrisponda ai criteri con i quali noi assumiamo per vera la realtà esterna, come ad esempio la tridimensionalità, il cadere della luce e dell’ombra, le differenziazioni di colori ecc., pongo domande precise su questi aspetti e dirigo così l’attenzione percettiva su di essi. Di solito tali domande risultano utili per l’immaginante perché orientano lo sguardo sull’inosservato, sulle zone di configurazione confusa.
L’immagine iniziale è probabilmente comparabile alla prima fase del sogno che rappresenta una premessa, o una cornice scenica, all’interno della quale emerge la tensione conflittuale che spinge verso una soluzione.
Uno dei criteri terapeutici importanti nel processo immaginativo è, come ho già detto, il comportamento dell’Io.
Già in questa prima fase è possibile ricevere, in proposito, informazioni diagnostiche. Per valutare preliminarmente le attuali capacità integrative della coscienza dell’immaginante, tento di mettermi nella sua situazione attraverso una “prova” di immedesimazione immaginativa e di rilevare il mio potenziale comportamento, confrontandolo con quello dell’immaginante. Casement definisce quest’aspetto dell’accompagnamento terapeutico “identificazione di prova”.
Ecco un esempio di accompagnamento terapeutico silente.
Un artista, poco più che trentenne, soffre di inibizione della propria creatività artistica. La sua immagine iniziale: in un corridoio d’appartamento dalla luce soffusa si guarda allo specchio. Si vede come un bambino di cinque anni che sembra, al tempo stesso, un piccolo uomo già vecchio.
L’immaginante rimane impressionato da ciò che vede e si sente profondamente toccato dall’emozione. Inizia a raccontare parlando delle tante responsabilità che ha dovuto sobbarcarsi sin dall’età di cinque anni. Dopo un po’ aggiunge «E tutto questo non è mai cambiato!». Cercando di cogliere le indicazioni diagnostiche dall’immagine iniziale, notiamo dapprima uno spazio abitativo scarsamente illuminato, poche differenziazioni di luce e di ombra, un’assenza di colori distinti. L’uomo si trova sulla soglia, nello spazio di entrata/uscita, in uno spazio nel quale un rilassamento non può avvenire. In tali luoghi di solito lo sguardo allo specchio serve a controllare fugacemente con quale aspetto usciremo, ci mostreremo agli
altri, quale immagine daremo di noi. Qui, invece, la riflessione attraverso lo specchio indica una disponibilità riflessiva rivolta all’interno dell’immaginante. L’immagine riflessa evidenzia una fusione del bambino con il vecchio della coppia archetipica puer-senex. Ed è a causa di questa confusione che non si attua un campo di tensione dinamica, premessa questa per ogni lavoro creativo. Si suppone che il paziente non possa far sviluppare giocosamente il proprio bambino interno, tenuto sottomesso dal rigore del suo aspetto senex. In quanto adulto, non ha neanche a disposizione le capacità stabilizzanti del senex in forma adeguata, essendo queste rimaste infantili come in un bambino di cinque anni.
L’immagine dell’inconscio ha evocato un affetto profondo, che l’immaginante può ora vivere. Quando viene colpito emozionalmente, l’immagine acquista processualità. Non per nulla la radice etimologica stessa del termine emozione rimanda intrinsecamente al movimento. Da una parte fluiscono i ricordi, che attraverso l’immagine allo specchio del puer-senex a valenza simbolica acquistano una comprensione dinamica, dall’altra l’uomo comincia a muoversi nell’immagine. Scende le scale ed esce all’aperto.
Strutturalmente si colloca all’esterno della barriera delle mura domestiche e delle difese ad esse correlate. Scopre un piccolo ragazzo perso nel cortile.
Si commuove violentemente, quindi inizia a fare la sua conoscenza, riuscendo infine a prenderlo protettivamente tra le sue braccia. Concedendosi uno spazio riflessivo interno e muovendosi verso l’esterno, aprendo spazi, l’immaginante ha reso possibile la separazione tra il bambino e l’uomo.
L’accompagnamento terapeutico dell’immaginazione attiva, volto a creare un luogo di introversione e accoglimento, ha positivamente supportato gli analoghi movimenti interni dell’immaginante.
Ma non sempre questo movimento è possibile. Potrebbe esserci, infatti, un disturbo dell’equilibrio flessibile-dinamico tra coscienza e inconscio. Se una parte della coppia in contrapposizione tende ad essere troppo “potente”, o se c’è una stagnazione tra i poli in tensione, mi pongo controtransferalmente in ascolto di una mia immagine, nel tentativo di recepire gli affetti conflittuali in atto.
Nella fase preimmaginativa di una paziente mi viene un’immagine. Vedo una formazione tondeggiante, quasi una palla separata da una linea orizzontale. Questa linea si allunga verso destra trasformandosi in una sorta di ramo con dei boccioli. Cerco di memorizzare l’immagine e di “metterla da parte”.
L’immaginante si ritrova seduta accanto a un contadino che già “conosce”, per averlo incontrato in precedenti immaginazioni. Assecondando il proprio bisogno di vicinanza e di contatto, tenta di appoggiarsi al contadino.
Io cerco immaginativamente di ripetere il suo movimento in modo identificatorio. L’aspetto cospicuo dell’abituale dinamica immaginativa della paziente è che proprio nei momenti in cui ella potrebbe sentire calore e sperimentare contenimento, “l’immagine se ne va”, come spesso le capita di dire. Scavalca così il suo conflitto interiore fondamentale, il conflitto tra vicinanza, dedizione, fiducia e l’angoscia di essere sopraffatta o di “cadere nel vuoto”.
In momenti come questo mi aiuta la cosiddetta “supervisione interna”.
Attraverso un’elaborazione del controtransfert, cerco di sondare che effetto potrebbe avere sull’immaginante un mio intervento intuitivamente pensato.
L’immaginante conosce la propria situazione di stallo conflittuale e la denomina abitualmente come: «La situazione in cui l’immagine se ne va».
Decido di chiederle di ripetere con passi molto dettagliati gli ultimi movimenti immaginativi, facendo particolare attenzione ai suoi affetti, invitandola così a tentare di contenere, attraverso il monitoraggio dei gesti, la minaccia massiccia dell’angoscia. Adesso l’immaginante tenta di concedersi soltanto quel poco di vicinanza al contadino che le permetta di mantenere la propria coscienza corporea e la propria consapevolezza affettiva.
Senza dilungarmi sulla situazione clinica di questa paziente cinquantenne, vorrei accennare brevemente ad alcuni dati biografici per approfondire, in particolare, la situazione dinamica “in cui l’immagine se ne va”. Questa donna è la prima figlia di numerosi fratelli e sorelle nati in rapida successione. Non ha potuto costruire una vicinanza fiduciosa con la madre, probabilmente profondamente depressa. Neanche il padre, che chiede il divorzio dopo la nascita dell’ultimo figlio, le ha potuto offrire una relazione stabile. Forse l’immaginante usa la locuzione “l’immagine se ne va” per dare espressione al proprio vissuto infantile di abbandono. Nella psicodinamica dell’espressione “l’immagine se ne va” sembrano fondersi una modalità esperienziale relativamente inconscia della prima infanzia e la sua attitudine di difesa dagli affetti. Nelle esperienze di vicinanza s’intrecciano il bisogno infantile di essere tenuta fiduciosamente e di essere rispecchiata e, inoltre, le dolorose delusioni di distacco subite. Nel corso delle sue immaginazioni attive questi due aspetti vengono sviluppati separatamente. Ci sono immaginazioni in cui lentamente la paziente si costruisce la fiducia nell’essere tenuta; poi ci sono immaginazioni in cui ella trova accesso alle reazioni affettive ai ripetuti traumi di abbandono. Allora piange dolorosamente o emette gemiti penetranti, espressione di vissuti finora sommersi.
Nella seduta successiva a quella dell’incontro con il contadino, nell’immaginazione della paziente si manifesta la scissione relativa alla forte difesa dall’affetto, che avevo percepito nella mia immagine nella fase preimmaginativa.
Lei la descrive cosi: «Sono come suddivisa … una volta sono come in un guscio sotto terra e un’altra volta sono coricata per terra con la faccia in giù». Passa un lasso di tempo in cui la tensione aumenta, poi aggiunge «Batto con i pugni in terra, ma non sento nessun dolore».
Subentra un silenzio che mi sembra molto lungo. E un silenzio costringente, di disperazione. Mi chiedo se avrà la forza psichica di trasformare questa tensione dolorosa e così mi pongo in ascolto di un’altra mia immagine: vedo un pezzo di tronco d’albero sottile che sembra quasi artificiale.
Anche la mia immagine adesso comincia progressivamente a svilupparsi. Il tronco d’albero si gonfia, acquista corpo e struttura e viene ricoperto da una specie tessuto fatto di piccoli punti neri, quasi gemme incipienti. Non posso negare che quest’immagine mi aiuti a sopportare meglio il lungo silenzio. Ciononostante tento di nuovo di liberarmene per non influenzare l’immaginante, spingendola a far emergere un aspetto di “falso sé”. Passerà ancora del tempo prima che l’immaginante riesca a sciogliere la tensione difensiva e far emergere la sua tristezza scissa. Piangerà a lungo. La sessione immaginativa, per quel giomo, terminerà così.
Quando arriva in seduta il momento giusto di terminare un’immaginazione attiva, in genere entrambi, immaginante e analista, lo avvertono simultaneamente. La tensione tra gli opposti diminuisce. La relazione tra la coscienza e i contenuti dell’inconscio rappresentati nell’immagine si vitalizza, si approfondisce e si ravvicina. Verso la fine del processo immaginativo avvengono dei cambiamenti, riconoscibili dall’immagine sia strutturalmente che contenutisticamente. I cambiamenti strutturali possono assumere la forma di ostacoli che vengono superati mentre nello spazio immaginale si configura una dimensione di apertura. Si ridimensiona la difesa psichica, si produce una nuova prospettiva, che si esprime di solito nell’aspetto poietico di una rappresentazione simbolica. Un cambiamento può essere registrato anche come riduzione della distanza tra relazioni conflittuali. La prossimità tra cose e persone immaginate, oppure tra queste e 1’Io, può essere il segno di un loro avvicinamento dinamico alla coscienza. Un’analoga modalità spaziale per figurare movimenti integrativi è lo spostamento del piano esperienziale da un livello filogeneticamente e simbolicamente arcaico, da un fondale marino o da un’epoca preistorica ad esempio, a un piano più congeniale a un’interazione umana. I cambiamenti strutturali non sono comunque decifrabili senza un nesso con i mutamenti contenutistici.
Nella fase terminale del processo immaginativo i cambiamenti di contenuto spesso si esprimono nella trasformazione dell’aspetto o delle caratteristiche dell’altro che abbiamo di fronte: l’atmosfera dell’immagine diventa,
nell’insieme, più rilassata e piacevole; persone che dapprima sembravano minacciose o spaventose diventano collaborative e fungono da accompagnatori amichevoli e da guida per l’Io. L’avvicinamento crescente a queste figure, che rappresentano parti personificate della personalità, corrisponde alla progressiva integrazione dell’inconscio proiettato. In questo percorso, l’immaginante raggiunge dei cambiamenti strutturali, contenutistici ed emozionali e porta il proprio “compito” a una qualche soluzione. Immaginante e analista condividono la sensazione che una Gestalt si è chiusa, si è “arrotondata”. In questo modo scompare il richiamo tensionale emanato da una forma figurativa non ancora sufficientemente compiuta.
Ritengo utile aggiungere un altro esempio nel quale l’immaginante tende, a mio parere, a interrompere l’immaginazione prima del termine.
L’immaginazione attiva che descriverò è tratta da una lunga serie di immaginazioni di una paziente trentenne. Nel periodo iniziale dell’analisi, le avevo chiesto cosa avrebbe voluto ottenere dal nostro lavoro. Riflettendo mi aveva risposto: «Mi viene in mente l’immagine di toccare un pianoforte, con tanti tasti neri e bianchi che si alternano ritmicamente». Tasti neri e bianchi, spazi ritmici, penso io, che si alternano fluidamente, senza interruzioni, fino a far udire una musica. La paziente dice, però, di sentirsi come una pietra scura, rotonda, sommersa in uno specchio d’acqua dal quale emerge soltanto la sua schiena. Ci sarebbe tanto da dire su quest’immagine di sé. Qui vorrei accennare soltanto al peso depressivo di quel conglomerato complessuale materializzato, pietrificato e indurito, che per la maggior parte è immerso nella sfera dell’inconscio, contrapposto in maniera esplicita all’immagine del “tocco del pianoforte” che esprime differenziazione e capacità espressiva.
I ricordi d’infanzia sono per lo più legati a scene in cui la paziente, ultima nata, non trova uno spazio adeguato in cui sentirsi sicura e protetta per sperimentarsi nel gioco e, soprattutto, per esprimervisi liberamente. Si sente disturbata, svalutata e perciò distrutta. Crescendo imparerà a dare spazio alle fantasie giocose soltanto interiormente, strutturando una forte introversione. Un sogno lo evidenzia: è una bambina e ha inghiottito i suoi giocattoli, legati a dei fili, per non farseli prendere da nessuno. Lo stomaco le duole poiché è appesantito da sostanze non digeribili, sia oggetti che situazioni psichiche.
Questa è sembrata alla paziente nel corso del tempo l’unica risposta difensiva perseguibile nella sua situazione.
Fin dall’inizio del nostro lavoro, e per un bel po’ di tempo in seguito, fui colpita dal suo contatto visivo sfuggente e timido, dai suoi movimenti silenziosi. Percepivo in lei la bambina introvertita del sogno. Ora, al termine del suo percorso terapeutico condotto essenzialmente attivando il suo spazio immaginale, ha cambiato professione. È diventata pittrice e sembra che con i suoi quadri, non a caso di grande formato, riesca ad esprimersi e anche a ottenere significativi riconoscimenti. Vive anche una relazione di coppia vicendevolmente arricchente e affettuosa.
Per finire, vorrei riportare l’esempio di un’immaginazione attiva in cui la paziente tende a concludere anticipatamente l’immaginazione mentre io sento che è ancora viva una forte tensione. Ciò mi induce a prendere la decisione inusuale di intervenire, “forzando” la continuazione del processo immaginativo.
L’immaginante sente la necessità di scendere lungo una scala nello scantinato. Giunge molto in profondità. Nel buio attraversa corridoi, passa a fianco di stanze aperte e vuote. È in una di queste che avverte fisicamente una presenza; ha paura, ma poi si avvicina. Nell’angolo riconosce, appena visibile, una giovane donna, debole, con il viso pallido, emaciato, coperta di stracci. L’immaginante riesce ad accostarsi perché sente che la donna ha bisogno di aiuto. Poi la trascina dietro di sé, sulla scala che conduce verso l’uscita. Con la prima luce del giorno si volta verso di lei e intuitivamente riconosce nella giovane donna un aspetto della propria femminilità mai vissuto. Guardandola si spaventa e molla la mano della donna. Le fa salire gli ultimi gradini da sola mentre lei rimane indietro e si ferma. In questo momento preciso l’immaginante apre gli occhi e mi guarda, come per comunicarmi che ha terminato la sua immaginazione. Esito, ripasso dentro di me la situazione e poi le chiedo se non vuole continuare il suo percorso immaginale. Raccoglie il mio invito e riesce, questa volta, a seguire la donna. Si siedono fuori su una panca, una affianco all’altra. Si guardano chiaramente alla luce del giorno. Ora la paziente sente intensamente il fascino femminile che questa figura emana e ne è visibilmente commossa.
Dopo un po’ finisce l’immaginazione; ora avverto anche io che la tensione immaginativa si è naturalmente attenuata e che la paziente non ha terminato l’immaginazione con un senso di spavento e di ritiro, paralizzata tra il buio dello scantinato e la luce diurna, sul mezzo di una scala.
Perché ho invitato l’immaginante a proseguire? Questa paziente esita a portare i contenuti interiori nel dialogo analitico e nelle relazioni umane.
C’è una soglia, come un affetto tra pudore e vergogna, che sembra si ponga a guardia tra il dentro e il fuori. Come se temesse di essere messa a nudo, evita nell’immagine la luce chiara del giorno. Su un piano controtransferale, ho avvertito, nello sguardo lanciatomi, un invito a partecipare al processo come rappresentante di un aspetto cosciente, supportante e osservante.
Includendomi in questa maniera, la paziente ha attivato una triangolazione
dello spazio analitico, costellando un elemento paterno, terzo, di direzionalità. Per questo motivo ho deciso di invitare l’immaginante a riprendere l’immaginazione. Nel percorso che ne è seguito, ella è riuscita a fare l’esperienza interiore della superabilità della “soglia”. L’immaginante ha così dato forma alla tensionalità irrisolta del suo vissuto, ha chiuso una Gestalt: la sua esperienza può oramai stabilizzarsi nella realtà del suo Sé interno ed esterno.
Riassunto
L’articolo descrive alcuni dei criteri utilizzati nell’accompagnamento terapeutico della immaginazione attiva durante la seduta analitica. Una serie di brevi sequenze cliniche è utilizzata in funzione di esemplificazione. Nel corso dell’immaginazione attiva gli aspetti dell’inconscio del paziente emergono fenomenologicamente in forma d’immagine e in questo modo viene reso possibile stabilire un dialogo con essi. Da una situazione di stasi conflittuale, intrapsichica ed intersoggettiva, si sviluppa così una tensione integrativa che conduce a una sintesi relazionale, che si riflette positivamente sui progressi terapeutici della coppia analitica al lavoro.
Summary
The article describes some of the criteria used in the therapeutic accompanying of active imagination during the analytical session. Some clinical examples are presented to elucidate them. During active imagination some aspects of the patient’s unconscious emerge in the form of an image and a dialogue with those aspects becomes possible. In this way, from an intrapsychic and intersubjective conflictual situation develops an integrative tension which leads to a new relational synthesis that reflects itself positively on the therapeutic progresses made by the analytical couple at work.
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L’autrice
L’autrice, che si è formata in Germania con una specifica specializzazione sull’uso della tecnica dell’immaginazione attiva e dei processi corporei in ambito analitico, ha lavorato privatamente a Berlino per circa 10 anni. Nel 2005 trasferirà la propria attività professionale in Sardegna.